Tra le parole più usate in questi mesi, il “distanziamento” merita di essere pensato, rielaborato.

Si è iniziato a parlare di “distanziamento sociale” ma presto, e giustamente, lo si è corretto in “distanziamento fisico”: la necessità di tenere una distanza di sicurezza tra una persona e l’altra per evitare il propagarsi del Coronavirus.

Noi non siamo fatti per stare distanti l’uno dall’altro. Guai a incoraggiare l’isolamento, la paura, la diffidenza nei confronti di familiari, compagni di lavoro o di classe, vicini di casa… Dall’emergenza sanitaria siamo passati a constatare che anche con le parziali e regolamentate riaperture ci sono persone di tutte le età che si sottraggono volentieri all’incontro (quello vero, in presenza) con gli altri. Il distanziamento fisico è diventato un’abitudine che rivela un altro pericolo, non meno grave. Il pensarsi soli, individui in perenne autodifesa, dove gli altri sono potenziali nemici, sospetti da cui stare lontano, da usare solo per le necessità improcrastinabili.

Ogni giorno ragazzi, adolescenti, adulti… evidenziano la sindrome di distanziamento sociale: ci si è abituati al mondo di casa, si esce attraverso i social: il contatto con gli altri si è rarefatto, non è più un vero contatto che reclama i 5 sensi, e poi l’interezza di se stessi (con il rischio della libertà, la prudenza che potenzia l’intelligenza, la corporeità e le sue dinamiche, ecc.). Il contatto ora si restringe alla mediazione virtuale, si reprime nel digitale, contenendo e limitando le potenzialità della nostra persona.

A dire il vero anche prima della pandemia la giusta relazione tra le persone è sempre stata problematica: talvolta si è troppo vicini, fino a pestarsi i piedi, fino ad invadere l’intimità dell’altro. Il lockdown ha fatto emergere la fatica dello stare insieme di tante coppie, di genitori e figli, di fratelli e sorelle. Ma anche il contrario: abituati a stare lontani, non basta essere obbligati a restare nello stesso appartamento. Se il cuore è lontano, altrove… la vicinanza costretta dalle norme diventa una gabbia insostenibile. E anche questo coinvolge tutti: coniugi, figli, fratelli…

La pandemia esige che ci prendiamo cura delle nostre relazioni, anzitutto familiari.

E qui c’è il bello della Grazia. Qui si inserisce una breccia in cui soffia lo Spirito!

E se questa pandemia dovesse acquisire il senso di accelerare il nostro bisogno di responsabilità?

Già prima eravamo logorati. Acciaccati per la fretta. Rinserrati in un utilitarismo sfrenato. Ammalati dal desiderio di emozioni sempre più vertiginose. In perenne conflitto… nauseati dalle responsabilità e in ricerca di leggerezza, come di adolescenti che pensano solo a godersela… Affamati di felicità… ma accecati e incapaci di trovarla nelle cose… e anche nelle persone!

E se questa pandemia fosse il richiamo a pensarci come pellegrini dell’Assoluto, come viandanti in perenne ricerca su tracce che necessitano la calma e il silenzio, l’attenzione e il confronto sereno, l’umiltà del chiedere aiuto e la gioia del riceverlo, la disponibilità a perdonarsi e a perdonare…

Non siamo competitori… siamo figli amati dal Padre.

E se questa pandemia fosse un appello a maturare una ricerca spirituale più matura?

E chi ha detto che le nostre faticose relazioni sono da rottamare?

E chi ha detto che non c’è più niente da fare?

Lo Spirito soffia dove vuole… e arriva anche nelle pieghe delle nostre fragilità, rialza le vele infiacchite per riprendere il largo di sogni che avevamo dismesso. Spesso ci siamo rifugiati in porti fantastici, illusioni per sentirci al riparo dalle tempeste di noi stessi, dall’accettare l’altro per quello che è, dall’amarlo per quello che è… senza infingimenti. Come ha fatto Dio con me. Come fa di nuovo. Anche quando cado su me stesso.

Lo Spirito soffia e la pandemia ci ha fatto scoprire il progetto di Dio: uno vale a prescindere. Giovane o vecchio, povero o ricco, professionista o disoccupato. Ognuno ha il suo carico di dolori e speranze, di relazioni e di fallimenti. Vale a prescindere. Per un cristiano ognuno merita, perché il Cristo è morto per il peccatore, non per il santo, il giusto e il perfetto.

Lo Spirito soffia e ti suggerisce: questo è il tempo non delle manutenzioni ordinarie. Questo è il tempo per la rinascita. Questa è l’ora della Grazia. Questo è il tempo dei miracoli. È giunto il momento della Presenza di Dio in noi. Come non la avevamo mai riconosciuta e accolta.

Comincia a fare questo esercizio: guarda il tuo familiare (tua moglie, tuo marito, tuo figlio, tua madre, tuo padre…) con lo sguardo di Gesù. Prova per lui i suoi stessi sentimenti. Rintracciali. Alimentali. Lasciati invadere dalla tenerezza di Dio che risana quel che c‘è da perdonare e fa risorgere a vita nuova anche i nostri legami spezzati. E le nostre piccole-enormi tragedie umane ridiventano un altare eucaristico e quel pane spezzato trasfigura in comunione, corpo di Cristo nell’oggi della nostra fragile carne.

Sono riflessioni che ci coinvolgono tutti. Non riguardano solo quella famiglia o quella coppia: tutti siamo “imbarcati” sulla stessa scialuppa di salvataggio. E con noi è il Signore. Se ci sono traversate difficili, e qualcuno più di altri le sta vivendo, è bello sapere che siamo insieme, e che possiamo aiutarci.

Da questa pandemia abbiamo scoperto che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Non del giudizio, non della ricetta magica. Ma della fiducia, della misericordia, della responsabilità gli uni per gli altri. E questo è come il sorgere di un’alba di speranza.

don Enrico